Uno, nessuno e centomila

Uno, nessuno e centomila L'immaginario

Influenze

Tra le opere che hanno più influenzato la stesura di Uno, nessuno e centomila è sicuramente possibile annoverare il romanzo La vita e le opinioni di Tristram Shandy, gentiluomo (edito a puntate tra il 1759 e il 1767) di Laurence Sterne: il protagonista Tristram, figlio di un abile e colto mercante, è nato quasi senza naso a causa delle pinze del dottor Slop e il lettore è posto dinanzi una vera e propria dissertazione dei nasi presente all’interno dell’opera. Se Pirandello richiama la dottrina dei nasi nella vicenda di Vitangelo, è bene sottolineare come la stessa stesura del testo abbia legami con l’opera del XVIII secolo: difatti, il testo di Sterne è considerato un antenato del moderno antiromanzo poiché al suo interno vi sono pagine bianche, utilizzo di flashback e flashforward, capitoli composti da una sola frase e riflessioni sulla natura stessa della narrativa romanzesca che permettono all’opera di trasgredire tutte le convenzioni del romanzo tradizionale. Tali infrazioni costituiscono un punto di partenza dal quale Pirandello inizia a redigere il proprio testo, seguendo un filo invisibile che unisce le vicende di Vitangelo a quelle di Shandy: due antieroi inetti alla vita, sebbene il primo raggiunga un proprio stato di serenità unendosi al fluire della natura, mentre il secondo non riesca a superare la fase embrionale della sua esistenza. Se l’opera di Sterne è stata attentamente letta da Pirandello, rimanendovi così affascinato da richiamare alcuni elementi narrativi dello scrittore irlandese nelle sue opere, allo stesso modo è bene menzionare il contesto socio-culturale nel quale la sua progenie letteraria giunge a compimento, per comprendere come altri studiosi, scrittori e testi abbiano influenzato la sua penna. I primi anni del Novecento furono costellati da scoperte che, assieme alla drammaticità e al dolore sopraggiunti a seguito dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, privarono l’uomo di qualsiasi possibile punto di riferimento al quale appigliarsi, rendendo tangibile la pluridimensionalità del mondo esteriore. La Teoria della relatività di Albert Einstein (1905), ad esempio, aveva negato l’esistenza di un tempo unico, dimostrando come la dimensione temporale sia malleabile poiché ogni singolo individuo è possessore di una propria personale misura del tempo, che dipende e considera il proprio punto di partenza e la propria percorrenza. Se impossibile è dunque lo studio oggettivo della realtà esterna, anche il mondo interiore è ora preda di un’inaccessibilità insuperabile: lo psicologo francese Alfred Binet all’interno del suo testo Le alterazioni della personalità (1892), evidenzia la molteplicità della personalità umana e la possibilità per l’uomo di divenire altro da se stesso, con chiari richiami alla sfera della follia; pochi anni più tardi, il neurologo austriaco Sigmund Freud sottolinea come la psiche umana abbia le sembianze di un abisso in cui, sebbene possibile sia la comprensione di innumerevoli atteggiamenti, di frequente socialmente contrassegnati come bizzarri e singolari, vi è una perenne lotta tra Super Io ed Es, i cui esiti sono ravvisabili nell’Io, unica frazione di personalità apertamente visibile. Le conseguenze dei suoi studi in ambito clinico e psicologico parevano riecheggiare ciò che, pochi anni prima, il filosofo tedesco Friedrich Nietzsche aveva dichiarato all’interno del suo saggio Al di là del bene e del male: Preludio di una filosofia dell’avvenire. Nel testo egli asseriva come l’Io non fosse altro che una consuetudine grammaticale, priva di qualsiasi organicità, sostanza e verità. Pirandello incarnerà a pieno gli elementi di rottura presenti nel suo tempo, tanto da richiamare, all’interno del saggio Arte e scienza (presumibilmente scritto tra il 1906 e il 1908), la teoria freudiana: infatti, all’interno di questa sua dichiarazione d’estetica, egli ammette di aver compreso come la natura umana sia inafferrabile poiché la personalità degli uomini è molteplice e adattabile alle svariate situazioni di vita quotidiana. Allontanandosi dalle teorie crociane - secondo cui l’opera non era altro che il chiaro frutto di un rapporto logico con la scienza e la ragione, e non mera e banale esperienza lirica, del tutto irrazionale - Pirandello inizia a riflettere sulla mutevolezza dell’uomo, e dunque sul tema della follia, dello sdoppiamento e della dissociazione individuale, cause di un profondo dolore e angoscia esistenziale.

In un’epoca in cui il progresso appariva inarrestabile, grazie al dinamismo dei disparati centri di economia mondiale (tra tutti, doveroso menzionare USA e Germania), inseriti in una sana competizione nata durante la Belle Époque, lo strazio causato dal conflitto mondiale generò, inoltre, una frattura lacerante nelle coscienze degli uomini. Gli intellettuali furono martiri ignari di uno smarrimento senza precedenti, tanto che il poeta genovese Eugenio Montale rivendicherà, attraverso la lirica “Non chiederci la parola” (1923), la propria afonia artistica, avendo ormai perso il proprio ruolo di guida delle masse, declassato a un ignaro silenzio ben lontano dallo statuto di poeta vate dannunziano. L’idea di una realtà omogenea era allora anacronistica: non affatto rappresentabile come un oggetto corporeo ben analizzabile, emergono ora le singole individualità che, con le loro discrepanze e le loro fragilità, affollano le opere letterarie, smascherando qualsiasi decantata parvenza di completezza e autosufficienza morfologica. La dissoluzione del romanzo di ascendenza realistico-naturalistica già avviata col Mattia Pascal giunge a piena realizzazione con l’ultimo testo pirandelliano, tanto che lo storico e critico letterario Giacomo Debenedetti indica l’autore come un “parricida*” perché, in grado di cogliere i profondi mutamenti che hanno interessato il suo tempo, egli ha saputo realizzare l’“[...]uccisione del vecchio, che ossessione scrittori diversi e lontani e li avvicina”, allontanandosi dagli schemi narrativi propri del Naturalismo, dedito a interpretare la letteratura come un’istantanea della realtà, creando invece personaggi amorfi, dediti più o meno consapevolmente alle proprie fragilità, presentati in scena da narratori spesso inaffidabili. Le sue soluzioni letterarie sono spesso paradossali ed estreme: egli intende dimostrare come la ragione umana sia incongruente e inconcludente, dacché essa nulla può dinanzi al magma sociale che invade la vita di ognuno. È necessario allora che Pirandello si presenti come un contro-autore, contrario a qualsiasi previsione che il pubblico possa formulare su di lui: egli non mette se stesso al centro dell’opera come poeta-vate tipico del periodo romantico ma preferisce emarginarsi e, anziché comporre opere assolute, custodi di verità condivisibili e chiarificatori, realizza testi dissacranti in grado di relativizzare qualsiasi elemento dell’esistenza umana, presentata adesso come scomposta e inconcludente.

*FRANCA ANGELINI, Serafino e la tigre. Pirandello tra scrittura, teatro e cinema, Venezia, Marsilio Editori, 1990, p. 268