I promessi sposi

La stesura: dal Fermo e Lucia alla quarantana

Fermo e Lucia

Fase redazionale

 «Quel ramo del lago di Como...»

La prima idea del romanzo risale al 24 aprile 1821[3], quando Manzoni cominciò la stesura del Fermo e Lucia[N 1], componendo in circa un mese e mezzo i primi due capitoli e la prima stesura dell'Introduzione. Interruppe però il lavoro per dedicarsi all'Adelchi, al progetto poi accantonato della tragedia Spartaco e alla scrittura dell'ode Il cinque maggio. Dall'aprile del 1822 il Fermo e Lucia fu ripreso con maggiore lena e portato a termine il 17 settembre 1823[4]: il Manzoni dichiarò, nella lettera all'amico Claude Fauriel del 9 novembre dello stesso anno, di aver completato una nuova creazione letteraria caratterizzata dalla tendenza al vero storico[5]. L'oggetto della vicenda fu offerto al Manzoni dalla lettura di alcuni manoscritti recanti episodi realmente accaduti (le minacce ad un curato di campagna per non far celebrare il matrimonio tra due giovani, per esempio) che saranno centrali per lo sviluppo della trama[6].

Il legame col Cinque Maggio e con l'Adelchi

La vicinanza della stesura della tragedia, del carme in ode di Napoleone e del romanzo, mostrano affinità tematiche molto evidenti, come lo sviluppo della Provvidenza, della vanità delle cose umane rispetto alla grandezza di quelle celesti e la negatività ontologica della realtà, dominata dal binomio oppressi-oppressori[7] (quest'ultima concezione maturata nel soggiorno parigino del 1818-1820, grazie alla conoscenza del filosofo Augustin Thierry[8]). Ermengarda, tanto quanto Napoleone e gli umili del romanzo manzoniano, sono, seppur nelle loro diversità biografiche ed esistenziali, soggetti alla legge dell'oppressione che regna nella realtà storica dell'umanità: la provvida sventura di Ermengarda[9], che è stata liberata dal dolore per il ripudio dell'amato Carlo per giungere alla pace celeste, non è dissimile dalle sventure dell'imperatore francese che, tramite la dura prova dell'esilio e la riflessione sulla vanità delle conquiste militari[10], è salvato dal dolore in cui annaspava tramite la valida man che

«l’avviò, pei floridi / Sentier della speranza, / Ai campi eterni, al premio / Che i desidéri avanza, / Dov’è silenzio e tenebre / La gloria che passò»

Il concerto operato dalla Provvidenza nella redenzione degli oppressi dalla negatività della storia regna nell'intera economia del romanzo: le conversioni di fra Cristoforo, quella finale della Monaca di Monza e lo stesso sviluppo umano di Renzo durante le sue traversie e l'incontro finale con Don Rodrigo mostrano come, attraverso i disegni di Dio, i vari protagonisti raggiungano quella consapevolezza che li possa innalzare al di sopra delle tragiche vicende storiche di cui sono stati gli oppressi[11].

Limiti e originalità del Fermo e Lucia

 Prima pagina del manoscritto autografo de Gli sposi promessi, 1821 (Milano, Biblioteca Nazionale Braidense)

Il Fermo e Lucia non va considerato come laboratorio di scrittura utile a preparare il terreno al futuro romanzo, bensì come opera autonoma, dotata di una struttura interna coesa e del tutto indipendente dalle successive elaborazioni dell'autore[12]. Rimasto per molti anni inedito (sarebbe stato pubblicato solo nel 1915, da Giuseppe Lesca, col titolo Gli sposi promessi[13]), il Fermo e Lucia viene oggi guardato con grande interesse. Anche se la tessitura dell'opera è meno elaborata di quella de I promessi sposi, nei quattro tomi del Fermo e Lucia si ravvisa un romanzo irrisolto a causa delle scelte linguistiche dell'autore che, ancora lontano dalle preoccupazioni che preludono alla terza e ultima scrittura dell'opera, crea un tessuto verbale ricco, ove s'intrecciano e si alternano tracce di lingua letteraria, elementi dialettali, latinismi e prestiti di lingue straniere[14]. Nella seconda Introduzione a Fermo e Lucia l'autore definì la lingua usata «un composto indigesto di frasi un po' lombarde, un po' toscane, un po' francesi, un po' anche latine; di frasi che non appartengono a nessuna di queste categorie, ma sono cavate per analogia e per estensione o dall'una o dall'altra di esse»[15], definita anche come buona lingua[16]. Oltre all'aspetto linguistico, che Manzoni maturerà per tutti gli anni '20 e '30 (fino alla stesura della "quarantana"), il Fermo e Lucia differisce profondamente da I promessi sposi per la struttura narrativa più pesante, dominata dalla suddivisione in quattro tomi[17] e dalla mancata scorrevolezza dell'intreccio narrativo, dovuta ai frequenti interventi dell'autore o alla narrazioni dettagliate delle vicende di alcuni protagonisti («una cooperativa di storie e "biografie"»[18]), specie della Monaca di Monza[12].

La ventisettana

I cambiamenti strutturali e psicologici dei personaggi

 Andrea Gastaldi, l'Innominato, olio su tela, 1860. Nel passaggio dal Fermo e Lucia a I promessi sposi, la figura del Conte del sagrato cambia radicalmente.

Differente per struttura narrativa, cornice, presentazione dei personaggi e uso della lingua è invece la prima edizione de I promessi sposi, rivisitata dal Manzoni grazie all'aiuto degli amici Ermes Visconti e Claude Fauriel[19]. Questa stesura dell'opera (la cosiddetta "ventisettana", che è la prima edizione a stampa) fu pubblicata a Milano dal tipografo Vincenzo Ferrario in tre tomi fra il 1825 e il giugno 1827 (ma con la data del 1825 i primi due e del 1826 il terzo)[20] con il titolo I promessi sposi e il sottotitolo Storia milanese del secolo XVII, scoperta e rifatta da Alessandro Manzoni[21], riscuotendo un notevole successo di pubblico. La struttura più equilibrata (quattro sezioni di estensione pressoché uguale), la decisa riduzione di quello che appariva un "romanzo nel romanzo", ovvero la storia della monaca di Monza[22], la scelta di evitare il pittoresco e le tinte più fosche a favore di una rappresentazione più aderente al vero, sono i caratteri di quello che è in realtà un romanzo diverso da Fermo e Lucia[23].

Oltre alla struttura linguistica, cambiano anche i nomi dei personaggi e, in alcuni casi, anche il loro carattere. Oltre a Fermo che diventa Renzo, il nobile Valeriano diventa definitivamente Don Ferrante[N 2], così come il Conte del Sagrato cambia il suo nome nel ben più celebre Innominato. In quest'ultimo caso, il personaggio cambia radicalmente: il Conte del Sagrato non possiede l'indole riflessiva, tragicamente esistenziale nel rimembrare le sue colpe, della sua controparte dell'Innominato[24]. Il Conte del Sagrato, infatti, è «un killer d'alto rango, che delinque per lucro [...] ha anche una tinteggiatura politica antispagnola»[25], elementi non presenti nell'Innominato.

Dalla buona lingua al toscano

Linguisticamente, Manzoni abbandona il composto indigesto linguistico dell'edizione precedente per avvicinarsi al toscano in quanto è ritenuta dal Manzoni, per il suo lessico "pratico" utilizzato sia presso gli aristocratici che i popolani, la lingua più efficace per dare un tono realistico e concreto al suo romanzo[26][27]. Manzoni, che in famiglia parlava o il francese (lingua della nobiltà e delle classi colte) o il dialetto milanese, tra il 1824 (ancor prima del termine della stesura) e il 1827 cercò di imparare il toscano attraverso strumenti linguistici, utilizzando il dizionario Cherubini (italiano-milanese) e il Grand dictionnaire français-italien di François d'Alberti de Villeneuve per la traduzione in italiano dei lemmi francesi[28]. Non era tuttavia soddisfatto del risultato ottenuto, poiché il linguaggio dell'opera era ancora troppo debitore delle proprie origini lombarde, e quindi artificioso. Nello stesso 1827, si recò a Firenze, per "risciacquare – come disse – i panni in Arno" e sottoporre il romanzo a un'ulteriore e più accurata revisione linguistica, affrancandola dal dialetto toscano in generale, e rendendola aderente al dialetto fiorentino, visto ancor più adatto al realismo che si prefiggeva[29]. Una scelta destinata ad incidere profondamente nella nascita dell'italiano standard del neonato Regno d'Italia, grazie alla relazione che il Manzoni stesso inviò, nel 1868, al ministro per l'istruzione Broglio per l'insegnamento dell'italiano nelle scuole statali[30].

La quarantana

Genesi

 Francesco Hayez, Teresa Manzoni-Stampa-Borri, olio su tela, 1849, Pinacoteca di Brera, Milano. La seconda moglie di Manzoni e Tommaso Grossi spinsero lo scrittore a redigere una nuova edizione del romanzo.

L'edizione definitiva de I promessi sposi, pubblicata a dispense tra il novembre del 1840 e il novembre del 1842 (ma con la data del 1840 sul frontespizio)[31], con l'aggiunta in appendice della Storia della colonna infame[32], fu decisa sia per la volontà dell'autore di rinnovare l'impianto stilistico e linguistico della "ventisettana" dopo l'esperienza fiorentina, sia per la spinta che Manzoni ricevette dalla seconda moglie, Teresa Borri – grande ammiratrice dell'opera manzoniana –, e dall'amico di lunga data Tommaso Grossi, i quali intravedevano numerosi introiti dalla nuova edizione illustrata[33]. La seconda edizione, che essenzialmente differisce da quella del 1827 per la revisione linguistica dal toscano al fiorentino colto[34], vide il prezioso aiuto della fiorentina Emilia Luti, governante dei figli dello scrittore, con la quale mantenne un'intensa corrispondenza epistolare anche dopo che l'istitutrice lasciò i Manzoni per i Litta-Modignani[35]. Alcuni critici suggeriscono altresì che l'ormai ultracinquantenne Manzoni, distaccato da anni di inattività poetica, abbia deciso di smussare alcune espressioni troppo vicine alla sfera lirica[36].

Le edizioni pirata e la collaborazione con Francesco Gonin

Il successo dell'opera manzoniana comportò, in un'epoca in cui non esisteva ancora il diritto d'autore, il proliferare di edizioni abusive. Tali edizioni spinsero Manzoni a dotare l'edizione di alcune attrattive in più: un corredo di illustrazioni, l'utilizzo della carta e dell'inchiostro migliori e l'aggiunta, in allegato, di un romanzo del tutto nuovo, Storia della colonna infame[33]. Per le illustrazioni Manzoni pensò dapprima a Francesco Hayez, che ne inviò due a Parigi, ma il celebre pittore rinunciò affermando che un simile lavoro gli avrebbe procurato danni alla vista[33]. Lo scrittore chiese quindi aiuto in Francia all'amica Bianca Milesi, che si rivolse al pittore francese Louis Boulanger, ma nemmeno questo tentativo, testimoniato da un solo disegno, si rivelò fruttuoso[37]. Quando Francesco Gonin, giovane e promettente pittore piemontese, fu ospitato a Milano da Massimo d'Azeglio, Manzoni riconobbe in lui la persona giusta[33].

Il suo lavoro convinse pienamente l'autore, che con il Gonin intrattenne nei primi mesi del 1840 una fitta corrispondenza[38]. Il rapporto fra i due fu di grande intesa: lo scrittore guidò la mano del pittore nella composizione di questi quadretti. L'aver trovato l'illustratore non era tuttavia sufficiente: era necessario anche un buon incisore. Per tramite del pittore e incisore Giuseppe Sacchi, Manzoni riuscì a far venire dalla Francia i transalpini Bernard e Pollet e l'inglese Sheeres. La direzione del lavoro fu affidata al Gonin, incaricato di valutare e approvare le incisioni. Siccome queste andavano però a rilento, l'autore fece pressione sul Sacchi affinché venissero inviati d'oltralpe altri collaboratori, e fu accontentato con l'arrivo dei francesi Victor e Loyseau. A questo punto Manzoni poté infine occuparsi del contratto con gli stampatori Redaelli e Guglielmini, firmato il 13 giugno 1840[39]. Per stampare la "quarantana" fu per la prima volta utilizzato in Italia il torchio tipografico in ghisa inventato nel 1800 da Charles Stanhope, III conte di Stanhope[40], fabbricato su licenza dalla ditta Amos Dell'Orto di Monza[41].

La Storia della colonna infame

 Lapide della Colonna Infame, conservata nel Castello sforzesco (Corte Ducale) di Milano.

La Storia della colonna infame, ricostruzione del clima di intolleranza, ferocia e alienazione in cui si svolgevano i processi contro gli untori al tempo della peste raccontata nel romanzo, inizialmente fu appendice nel Fermo e Lucia[42] per poi essere aggiunta, dopo essere stata rielaborata linguisticamente e strutturalmente, alla "quarantana" nel 1842[43]. La vicenda, che affronta la tragica vicenda del barbiere Gian Giacomo Mora e dell'ufficiale di sanità Guglielmo Piazza, accusati di aver contribuito a diffondere la pestilenza attraverso presunti intrugli preparati dal Mora e affidati poi al Piazza, è una ferma e violenta condanna dell'illogicità della feroce superstizione della massa popolare e della tortura usata dalle autorità per estorcere le presunte colpe dei due[44]. Secondo alcuni studiosi non sarebbe un'appendice, ma il vero finale del romanzo, come dimostrerebbe l'impaginazione stessa, stesa dallo stesso Manzoni. Interessante anche l'analisi narratologica dell'opera manzoniana, da cui si comprende la distanza esistente fra narratore e autore[45].


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