I promessi sposi

Fortuna del romanzo e critica letteraria

L'Ottocento

 Emilio Praga, uno dei più rappresentativi esponenti della Scapigliatura e avversario implacabile di Manzoni.

Già quand'era in vita, Manzoni ebbe ammiratori incondizionati ed osteggiatori implacabili: ammirazione incondizionata venne da Francesco de Sanctis, Giovanni Verga, Luigi Capuana[143] e da Giovanni Pascoli, che gli avrebbe in seguito dedicato il saggio critico Eco di una notte mitica (1896)[144]. Nel secondo gruppo, invece, rientrano gli Scapigliati, che videro in Manzoni l'espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato e che si rivela anche nei confronti del romanzo, pieno di buoni sentimenti e perciò tendente ad un ricercato patetismo[145]; Giosuè Carducci, estimatore dell'Adelchi, fu implacabile critico del romanzo e della scelta linguistica adottata da Manzoni[146].

Il successo del romanzo manzoniano diede inoltre il via al fenomeno del manzonismo sia in campo linguistico (Ruggiero Bonghi, Edmondo de Amicis), ma anche in quello prettamente creativo, ovvero «parassitismo manzoneggiante» che spinse Luigi Gualtieri a comporre L'Innominato; e Antonio Balbiani Lasco il bandito della Valsassina, o sessant'anni dopo i Promessi Sposi; I figli di Renzo Tramaglino e di Lucia Mondella; L'ultimo della famiglia Tramaglino[147].

Il Novecento

 Gadda fu uno dei pochi difensori dell'operato manzoniano durante l'epoca delle avanguardie.

Nel Novecento, a causa dei movimenti anticlassicisti delle avanguardie, dell'evoluzione della lingua e all'edulcoramento della figura del romanziere che veniva insegnata nelle scuole, Manzoni subì varie critiche da parte di letterati e intellettuali: tra questi, D'Annunzio, avverso alla teoria linguistica manzoniana[148], il "primo" Croce[N 9] e il marxista Gramsci, che accusò Manzoni di paternalismo. La più importante apologia del Manzoni fu operata dal filosofo e pedagogista Giovanni Gentile, che elevò i Promessi Sposi al rango di «libro nazionale» al pari della Divina Commedia, giudicandolo un «libro di vita» basato sul discernimento concreto del vero, con cui Manzoni accoglieva le istanze morali e risorgimentali di Rosmini e Gioberti.[149] In difesa di Manzoni si schierò anche Carlo Emilio Gadda, che al suo esordio pubblicò nel 1927 l'Apologia manzoniana[150], e nel 1960 attaccò il piano di Alberto Moravia di affossarne la proposta linguistica[151]. Soltanto nel Secondo Novecento, grazie agli studi di Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro si è riusciti a "liberare" Manzoni dalla patina ideologica di cui era stato rivestito già all'indomani della sua morte, indagandone con occhio più libero di pregiudizi la poetica e, anche, la modernità dell'opera[152].

Comunque sia, il modello tematico e immaginifico del Manzoni si fece sentire anche in un secolo non tanto favorevole al Nostro come il precedente: Dino Buzzati scrisse – sulla base del capitolo manzoniano sulla malattia di don Rodrigo – il racconto La peste motoria, vivace trasposizione in cui la malattia aggredisce non più gli uomini, ma le autovetture e i monatti sono dipendenti degli sfasciacarrozze[153]. Anche nel campo della satira Manzoni ispirò nuovi talenti: Guido da Verona, per esempio, pubblicò nel 1929 una parodia de I promessi sposi. Guido da Verona considerava Alessandro Manzoni un letterato paternalista e dannoso, pertanto tolse dal romanzo tutti gli elementi da lui considerati manieristici e futili e li sostituì con passaggi erotici e anche politici: la satira contro il fascismo, seppur mai esplicita, fu ben percepita dai lettori del tempo[154].


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